Da IGI Investimenti un pacchetto di fondi importante per
sostenere sviluppatori di software innovativi nel settore dei pagamenti, tra
virtualizzazione e mobile access. Il Ceo Giuseppe Incarnato traccia il
profilo ideale e guarda al Salone dei Pagamenti come a un terreno fertile per
fare scouting … 

Di Mattia Schieppati 

Mai
come in questo giro di anni il settore dei pagamenti ha avuto così fame di
innovazione e rappresenta per start-up tecnologiche, software house e
sviluppatori un Eldorado dalle mille opportunità. Il triangolo magico
all’interno del quale si compiono i giochi è quello disegnato da tre temi
cardine: virtualizzazione delle transazioni, app e mobile come
porta di accesso, acquisizione e gestione di anagrafiche sempre più
mirate e ricche rese possibili dalla pervasività di social e over the top
tecnologici e dalla nostra dipendenza sempre più stretta dallo
strumento-smartphone. Un triangolo che richiede sistemi sempre più
sofisticati di sicurezza
, altro settore chiave di sviluppo. «Una start-up
che sviluppi software capaci di portare anche solo un pezzettino di innovazione
in questo ambito, è una gallina dalle uova d’oro»
A dare
le coordinate di questo scenario è Giuseppe Incarnato, Ceo di IGI Investimenti,
investitore industriale  con un portafoglio diretto di 80 milioni di euro
e leader di mercato nel settore degli investimenti di private equity in
start-up italiane nelle fasi di pre-seed, seed e first stage. Uno che quando si parla di start-up tecnologiche è
capace di sganciarsi dalla mistica – «che non paga, a livello di investimento
con logica industriale», dice – del giovane startupper capace di partorire
l’idea geniale e mira al sodo: sviluppo di software innovativo nell’ambito dei
sistemi di pagamento secondo la logica nuova, e imprescindibile, del creare
soluzioni che possano vivere «in simbiosi» con i grandi sviluppatori come
Facebook, Amazon, Google, Apple, «che possiedono le anagrafiche e sanno come far
fruttare il legame tra mobile e transazioni». 

Avete messo sul piatto 20 milioni di euro da
investire sulle idee giuste. Boutade o realtà?

Confermo, abbiamo stanziato 20 milioni da investire in start-up
impegnate nel segmento dei pagamenti, che significa sia sistemi di pagamento
innovativi, sia software per la sicurezza delle transazioni. Quella su cui
siamo concentrati in particolare attraverso l’attività costante di scouting che
facciamo sul campo – e il Salone dei Pagamenti sarà un’ottima occasione per
incrociare realtà potenzialmente interessanti – è la frontiera della
virtualizzazione dei sistemi di pagamento. 

Qual è il recinto all’interno del quale farsi venire questa
«idea giusta»?

La prospettiva verso cui si sta andando, velocemente, è quella
della fine della fisicità in tutti i processi di pagamento e prelievo del
contante. L’obiettivo è la virtualizzazione dell’accesso: arrivare a un solo codice alfanumerico di 8 elementi per accedere a tutti i servizi necessari, dal prelievo al
pagamento, senza più l’uso della plastic card, potrebbe rappresentare una semplificazione per l’utente. Innovazioni come il Virtual Pos di Intesa Sanpaolo e la
V Pay di UniCredit, solo per citare due casi recenti, fanno capire che
si sta andando verso questa nuova direzione: il
mercato di start-up, software house, ecc. che inventano e lavorano sulla
virtualizzazione dei pagamenti è il nostro bacino di investimento. 

Le start-up italiane hanno possibilità in questo campo?
Gli sviluppatori italiani, abituati a lavorare guardando alle
banche e ai circuiti di pagamento “tradizionali” come destinatari
delle loro soluzioni, ragionano ancora troppo nella logica del software
proprietario, mentre oggi l’innovazione passa da sistemi di pagamento evoluti
capaci di identificare i clienti. È quello che fanno i big tecnologici, i
social network, le grandi piattaforme di e-commerce. Oggi, in una transazione
il dato sensibile più importante non è il numero della carta di credito del
cliente, ma i suoi dati anagrafici, le sue abitudini d’acquisto. Le start-up
che lavorano nel settore dei sistemi di pagamento devono entrare in questa
logica. 

Perché coltivare start-up in Italia anziché farsi un giretto nel
mondo e trovare l’investimento giusto a San Francisco o a Singapore?

Perché i sistemi di pagamento, dal punto di vista dei vincoli
legislativi e di regolamenti, sono un settore “maledettamente
nazionale”: antiriciclaggio, regolamenti sulla movimentazione del
contante, ecc. È un sistema chiuso, secondo molti il più complesso e cavilloso
del mondo: difficilmente una soluzione sviluppata da una software house
straniera ha le caratteristiche necessarie per essere compatibile con il
sistema italiano. Per questo è più facile che le soluzioni nascano all’interno
dei confini. Vale piuttosto il contrario: se una start-up italiana sviluppa
software che vanno bene per l’Italia, può avere un grande futuro in tutto il
mondo. In quest’ottica, per un investitore scommettere su una realtà italiana
può essere molto remunerativo. 

Quali sono i modelli cui prendere spunto nel mondo?

Per tutti, il benchmark di riferimento è il modello australiano,
dove già la virtualizzazione è realtà corrente. Il portafoglio è ridotto a un
codice alfanumerico con cui è possibile compiere tutte le operazioni di
pagamento e prelievo. 

Qual è l’ammontare dell’investimento necessario per consentire a
una start-up promettente di esprimere il proprio potenziale?

Noi ragioniamo su un investimento di 1/1,5 milione di euro,
ticket che dovrebbe consentire a una realtà di sviluppare almeno un pezzo di
questa “catena” di innovazione. Pezzettino che già significherebbe un
ritorno, in termini di guadagno, molto consistente per una start-up. 

Quanto vi aspettate come ritorno, e in quanto tempo, da una
start-up su cui decidete di investire?

Noi siamo un fondo di natura industriale, e quello delle
tecnologie legate ai pagamenti è un settore ad alto tasso di crescita, per cui
ci possiamo aspettare un ritorno di 24-36 volte l’investimento, nel giro di 18
mesi: in media per la messa a punto di software in questo campo necessitano 3
mesi per l’analisi funzionale, 3 mesi per lo sviluppo, 3 mesi per il beta test.
Dopo 9 mesi il software è operativo e dopo altri 9 ci aspettiamo che cominci a
rendere.  

Qual è il profilo dello startupper che guardate?
Esiste ancora
il mito del giovane ventenne un po’ nerd che fa la scoperta del secolo?Questa è, appunto, mitologia. Lo startupper che a noi interessa
è una persona che ha maturato 15/20 anni di esperienza nel comparto. Quindi è
sicuramente più un 40enne che un 20enne. Noi investiamo su expertise concrete,
perché due sono le cose. Se hai 20 anni, sei un genio e hai fatto la scoperta
del secolo, non hai bisogno di noi, fai volare la tua azienda anche senza il
nostro aiuto. Se invece hai 20 anni e ti metti a fare lo startupper – come
succede in una grandissima parte dei casi – perché hai concluso l’università,
hai mandato in giro il tuo curriculum, e fai l’imprenditore a tempo perso
nell’attesa di un’assunzione in qualche grande azienda, allora per noi non
rappresenti un investimento valido. Le statistiche dicono che 7 giovani
startupper su 10 abbandonano il loro progetto prima che sia compiuto.
Facciamoci delle domande…  

Più che ai giovani startupper poco convinti, la critica viene
sempre portata a chi dovrebbe sostenerli. Questione ricorrente è quella della
mancanza in Italia di un venture capital vero, che dia ossigeno alle start-up …

Io credo che anche questo mercato si muova secondo la logica
della domanda e dell’offerta. Forse, se c’è poca offerta di capitali, è perché
anche la domanda – quella seria, credibile, di cui ho detto sopra – è piuttosto
bassa. Poi, se guardiamo ai numeri, è vero che nel nostro Paese i fondi di
private equity disposti a investire in questo settore sono pochi. Consideriamo
che gli industrial funds in totale non sono più di una decina, noi compresi.
Però la massa amministrata complessivamente è di circa 6 miliardi; i capitali
da investire, insomma, ci sarebbero. 

Quindi cosa manca?
A mio parere è una filiera di sostegno alle start-up, perché per
costruire un tessuto di sviluppo non basta il soggetto che ha un’idea e il
private equity che finanzia. Il sistema bancario ha spazio per fare in maniera
importante la sua parte, formando al proprio interno persone capaci di valutare
le potenzialità delle start-up – in Inghilterra le banche hanno credit
department specializzati in start-up –  e regolamenti che consentano di
finanziarle. Certo che se per accedere al credito un’impresa deve avere almeno
36 mesi di attività, le start-up sono tagliate fuori in partenza. Un ruolo
importante devono giocarlo anche i media che continuano a trattare le start-up
solo come fenomeni sporadici, ma faticano a fare una narrazione seria del
fenomeno. Il Governo qualcosa ha fatto e sta facendo: le agevolazioni fiscali
ed energetiche, la promozione di incubatori, le facilitazioni per
l’installazione di campus che facciano da ecosistema alle start-up. L’arrivo di
Apple a Napoli, Google a Roma con l’Università Luiss, ma anche il Politecnico
di Milano e di Torino sono buone pratiche che fanno ben sperare.  

Qual è a suo parere il ruolo delle banche in questo grande
gioco?

Le banche si trovano oggi nella necessità di rivedere
radicalmente il proprio business model; ci sono tanti nuovi attori che stanno
colonizzando quei territori che fino a poco tempo fa erano propriamente
“bancari”, e di fronte a questi newcomer molte banche sono rimaste spiazzate. Il cambiamento, la
“payvolution” come dice il claim del Salone, è in atto e va
affrontata con fiducia e capacità di innovazione. L’Italia è ancora un Paese
bancocentrico. Nei sistemi di incasso e pagamento le banche hanno un ruolo
tutt’ora centrale: non dimentichiamo che, tolto il 6% di transazioni
dell’e-commerce, c’è in Italia ancora un 94% di transazioni “fisiche”
che passano attraverso un conto corrente. Ovvero, quel data mining di cui tanto
si parla, e su cui tanti investono, le banche ce l’hanno già in casa; devono
sapere metterlo a frutto. I nuovi operatori entrati
in questo campo, i big tecnologici in testa, usano una strategia chiara ed
efficace: partono dal B2B per arrivare al B2C. Le banche devono sapere mettere
in relazione, integrare questi campi. L’industry bancaria, e quella dei sistemi
di pagamento in particolare, deve difendersi evolvendo.